venerdì 29 dicembre 2017
Cuore verde
Nel misurare i passi sull'acciottolato delle viuzze padovane dove mi perdo, io, lasciata la guida alla cognata, respiro la Città del Santo in aria nuova, felice di questa passeggiata mattutina fuori programma, come in fuga dalla casa rossa. Ed è bello camminare al passo svelto anche se il cielo ha indossato un mantelletto bigio e la pioggia bagna il naso e i capelli. In forma di turista, al seguito leggero di Sara (che mi lascia indietro) eccoci davanti al gran caffè Pedrocchi che è per Padova come il Caffè Greco è per la Roma mia. Solo che il Pedrocchi non è soltanto sala da caffè, ma un palazzetto intero, lo "stabilimento Pedrocchi" (appunto) fatto e costruito, al gusto di bizzarria del suo fondatore, Antonio Pedrocchi, che lo voleva "il più bello della terra". Un gran caffettiere che pensava in grande e alto. E al piano tal dei tali, credo il secondo (entrando sulla destra dei leoni di marmo sentinelle al portone centrale), si sale nel mondo eccentrico e fantasioso in gusto d'Ottocento, del fondatore. Eccoci, in giallo oro, nella sala da ballo, intitolata a Gioacchino Rossini. Ronzano tutt'intorno alle pareti delle apette gialle che a me ricordano tanto quelle Barberini romane... Via via, verso la sala egizia, e poi alle cineserie e infine nella sala Ercolana. Sara trotta e io dietro. E addio Pedrocchi. Il Santo ci accoglie nel suo abbraccio, il rosone di vetro sorride a lei che ha un appuntamento e a me che respiro il mistero. Per ritornare poi verso il centro e a casa, entriamo insieme nell'ariosa e ombrosa chiesa di San Francesco. E lì, nel cuore verde del suo chiostro romito, ecco, in danza, arrivar per me il palpito della vita vera. Sorrido, respiro. Presto, presto, via via, alla pasticceria Biasetto, dal maestro padovano, ad assaggiar un dolce buono e buonissimo intitolato setteveli, una delizia al palato, nel cuore rosso acceso, torta campione del mondo.
mercoledì 27 dicembre 2017
Cari ricordi
Nel casolare color rosa cipria di nonna Stella, perduto nella piatta campagna friulana, profumata di brina e di silenzio, regnava incontrastato il disordine. Un disordine mistico, per me, perché carico di mistero, pieno di magia, incrostato di storie antiche, vecchie e nuove. Non c'era camera, né armadio, non cassetto o cassettino dove non si trovassero ninnoli e carabattole della più curiosa fattura, raccogliticce in giro per il mondo e messe lì in una sarabanda di gusti e di colori che mi incantava. "Per carità che disordine!", protestava mia madre, che girava, stanza per stanza, nella segreta speranza di fare il suo butta butta. Ma la nonna la seguiva da lontano e, vigile, le fermava il braccio. "No, questo no, me lo ha regalato Tino. Ricordi? Era il tuo bidello a scuola..." E cominciava una storia incantata che io, naso all'aria, bevevo per osmosi come l'umidore dei campi là fuori. "E questo?", domandava mia madre, speranzosa. "No, no, no! E' del professor Spadari. Non si tocca. Un caro ricordo..." Gli occhi sognavano e i miei, piccoli, con i suoi. E il professor Spadari si innalzava nel mistero a Re di Francia, con cappa e spada, e forse anche a Paladino Orlando...
Quando la nonna si ritirava nel casolino in fondo al corridoio, che chiamava il suo studio, non bisognava disturbarla. "Sto lì, con le mie carte", diceva e, sbirciando dalla porta socchiusa, la vedevi in gran scritture, fogli volanti danzavano nell'aria per poi svenire sul tavolo ricolmo. "Mamma, posso buttare queste fatture? Sono vecchie, scadute", diceva mia madre. "Per carità che non si sa mai", era la risposta tutta recitata a precipizio per esser più convincente. E tutto restava lì dov'era, nella caverna d'Aladino.
Cari ricordi, che oggi splendono nella mia vetrina della meraviglie e mi sorridono come faceva nonna Stella quando, per farci dormire (invano) ripeteva in dondolio di voce, e senza sosta il suo morbido "Din, don, don"...
Quando la nonna si ritirava nel casolino in fondo al corridoio, che chiamava il suo studio, non bisognava disturbarla. "Sto lì, con le mie carte", diceva e, sbirciando dalla porta socchiusa, la vedevi in gran scritture, fogli volanti danzavano nell'aria per poi svenire sul tavolo ricolmo. "Mamma, posso buttare queste fatture? Sono vecchie, scadute", diceva mia madre. "Per carità che non si sa mai", era la risposta tutta recitata a precipizio per esser più convincente. E tutto restava lì dov'era, nella caverna d'Aladino.
Cari ricordi, che oggi splendono nella mia vetrina della meraviglie e mi sorridono come faceva nonna Stella quando, per farci dormire (invano) ripeteva in dondolio di voce, e senza sosta il suo morbido "Din, don, don"...
mercoledì 20 dicembre 2017
Sotto le stelle di Betlemme
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Il mio presepe... |
In casa Ponti, noi
bambini, non si faceva l’albero di Natale, considerato da mia madre (al
contrario di quanto pensa la Raggi) molto chiassoso, inelegante e per nulla
consono allo spirito nudo del Natale. Palle, palline, sciarpe filanti d’oro e d’argento
cozzavano, secondo mia madre, con la povertà della stalla di Betlemme, dove il
Divino Bambino aveva per culla soltanto una mangiatoia e per riscaldamento non
un fuoco, ma il fiato caldo del bue e dell’asinello. E, dunque, se in casa
Salini, su di sopra, l’albero di Natale grande, acceso di luci, bucava il buio
del giardino e da lontano sembrava gridare la sua vanitosa bellezza, da noi solo
un piccolo, nudo presepe.
Le montagne a far da
spalla dietro la capanna di Betlemme erano fatte con carta mimetica
stropicciata e piena di pallottole di carta di giornale; il firmamento, una
distesa silente di azzurro trapunto da stelle dorate, era appeso con lo scotch
al muro da una parte all’altra. Le statuine, tutte avvoltolate con carta
riciclata, venivano sistemate da noialtri bambini, nello sfondo del
palcoscenico dove si consumava l’eterna meraviglia. Si sistemavano i
pastorelli, seguiti dalle loro pecorelle bianche, alcuni suonavano una
cornamusa, altri il piffero, altri nulla. Gli angeli venivano appesi alla
capanna, con i loro vestiti color pastello, rosa, celeste, giallo canarino. Sui
monti, lontani, i placidi magi seguivano la stella e i cammelli loro. Per il
laghetto, uno specchio da trucco, nascosti i bordi di plastica sotto una coltre
di muschio raccolta in giardino, ci mettevo sopra le paperelle trovate nell’uovo
di Pasqua dell’anno prima. Il Bambino Divino, nascosto, aspettava il giorno del
suo arrivo mentre San Giuseppe e la Madonna erano già lì, con le braccia in
adorazione, in sacra attesa. Attendevo anche io e non per aprire i regali che
quelli erano piccole cose, magri pensieri, in una casa piena di bambini.
Soltanto dopo la messa di Mezzanotte, che ci vedeva riuniti nella cappella di
San Gregorio, tra gli scout di Monsignor Nobels, il Bambino trovava il suo
posto tra mamma e papà e tra noi. Il freddo mordeva, ma era notte d’amore e d’amore
il cuore ripieno. Dormivo, anche io, sotto le stelle di Betlemme.
domenica 17 dicembre 2017
Ad altiora, nel buon Natale!
Angioletto natalizio che annuncia l'arrivo del Divino Bambino |
Al ginnasio avevo un
libro di grammatica latina dal bel titolo di “Ad altiora”. Verso le altezze,
più in alto, diceva quella pagina bianca, con su scritti tanti nomi e cognomi
di professori, che parevano, nel loro piccolo nero, tante formichine a far la
fila sul bianco; e io, sulle sue pagine, imparavo la perifrastica attiva e
passiva e tutti i verbi, anche loro attivi e passivi, che ancora ricordo e
insegno a quanti me lo chiedono. Ad altiora, dico anche adesso che tenendosi
per mano, uno in fila all’altro, scorrono i giorni che ci separano dal Santo
Natale.
Ad altiora! E vi auguro dunque non tanto un Natale di stelle filanti,
in tripudio di panettoni e torrone, pranzi e cene con i parenti buoni o cattivi,
che pure sono cose gradite, ma, io vi auguro di avere, nella notte Santa, un
quadratino di cielo dove specchiare la vostra anima, un angolo di firmamento
tutto per voi, dove ritrovare la gioia di essere tralci verdi, nella bellezza
della vite (che è vita) potente. Vi auguro uno spicchio di gioia lucente,
amorevole, fatto di acqua pura e di vita vera, un abbraccio divino che da lassù
vi faccia sentire caldi dentro e sereni. Ad altiora. Per aspera ad astra…
giovedì 14 dicembre 2017
Il bello della vita
due barattoli fioriti, nella verità che rinasce |
Pensavo, qualche giorno
fa, così per non essere come sempre un poco d’antan, come rinata all’oggi nella
frutta candita del passato, pensavo, dicevo, alle “fake news” e al gran parlare
che se ne fa, con tutte le istituzioni a dir la loro persino sui social network
che, per me, nei loro messaggi a vuoto lanciati nel vuoto dell’etere sono vuoti
a perdere. Appunto. Pensavo alla gran cagnara che ne deriva, fake news su fake
news e via e via. Pensavo, ma non troppo, perché ha vinto il sorriso ironico
per via nello scorrere le pagine dei tanti quotidiani online che a volte sfoglio
ed altre no, mi sono detta, essi – i giornali – sono tutti pieni, stracolmi
di fake news! Come si fa a non aver occhi aperti per vederlo. A meno che non
pensiate che sapere con chi sta una certa signorina o quando si è rifatta gli
zigomi la tal altra o quali insulti si scambiano due perfette nullità costruite
dal mago di Oz con i controfiocchi del nulla eterno e assunte al cielo della “famosità”
(che come scriveva Pier Paolo Pasolini è solo l’altra faccia della persecuzione…)
siano punti fermi nella storia dell’umanità e – perché no – dell’universo…
E così, nel sorriso di
misericordia che in me si accende nel leggere tante cretinate, quelle sì “fake
news”. perché hanno la consistenza del niente, mi ricordo che ho un bel passato
di zucca e di patate sul fuoco e che, dall’odorino pare pronto e devo presto
toglierlo dal fornello dove gorgoglia e danza. E così, con una riverenza, auguro a tutti, un felice
giovedì in attesa del Natale che porta la buona novella, una vera notizia, il
bello della vita…
martedì 12 dicembre 2017
Un piccolo, puro nodo di capelli
Bennibags: la più venduta! |
Al venerdì dell’Immacolata
ero, alle 9 del mattino, nella bella chiesa (che è parrocchia ai Monti)
dedicata alla Vergine e che è tutta scura e ombra come il grembo di lei e della terra nel quale
il seme, che è la nostra anima, si addormenta per farsi pura. Lì, abbracciata
alla Mamma, essa, piccola com’è, e tutta fuoco per il suo vero amore, nella
gioia viva, matura e cresce. In profonda quiete, poi, nel silenzio d’attorno, e
sollevata dalla grazia divina e rotonda fatta Santo Spirito, si trova, in
solida umiltà, a respirare nella vita vera. Ero, dunque, lì, con le solite
poche presenze amiche (Adriana, la mia dolce Adriana soprattutto!) alla messa
festiva in dedica a Maria.
Poche presenze, scrivo,
qui e in tutte le messe dove vado (spesso e appena me lo si consente) perché la
dittatura della modernità ha reso quel tempo prezioso, anzi d’oro, incenso e
mirra, come una sospensione inutile del vivere che si deve ritagliare nella
fretta del fare, nella brama di avere, di possedere soldi e di invidiare gli
altri. Poche, dicevo, perché poche sanno quale inesprimibile gioia, che
dolcezza senza fine si prova nella contemplazione che vuol dire soltanto,
semplicemente, stare alla Sua presenza, con lui, un Padre buono, in dolce tenera amicizia.
Ebbene io ero lì e d’un tratto, alzando gli occhi, alla cupola vedo, in un
affresco che ritrae la presentazione al tempio di Maria bambina, che la vergine
Santa porta, in semplicità, lo stesso nodo di capelli a pomo d’arancia che ho
io e che il colore è tale e quale, sul miele e sul biondo. Ma silenzio, arriva
Don Ermanno…
sabato 9 dicembre 2017
Più liberi, più libri e tra le nuvole
Fiuto, da lontano, i
libri croccanti di “Più libri più liberi” mentre me ne sto, fresca nell’umidore
mattutino e perduta nel serpentone in attesa del suo turno di entrata nel gran
palazzo di vetro che contiene oltre agli infiniti stand di carta e carte la
famosa nuvola di Fuksas. Nei libri degli altri, ieri, come oggi, le avventure
mie che si intrecciavano e si intrecciano alla mia esistenza, pur restando
chiusa tutta quanta, io, nel mio gheriglio di noce. Nelle vite degli altri, la
mia strada. Ragazza, era il “Salone del libro” di Torino (che amavo); oggi, c’è
questa bella fiera che raccoglie in abbraccio i tanti piccoli e medi editori
che si cimentano in un mestiere che più che un mestiere è una lunga (o breve) storia d’amore.
Allo stand E22, dei cari
amici, una bella coppia, che sedici anni orsono ha fondato una casa editrice “Nutrimenti”
e che ancora adesso - “in pari da due anni”, come esulta la bella ed elegante
Ada Carpi di Resmini, respira, vive, vince. Oggi con un bel romanzo di Don
Robertson “L’ultima stagione”. La scrittura è di rango, lo scrittore, con una
faccia che pare Orson Wells, era amatissimo da Stephen King e il suo destino
legato al 21 di marzo, quando nacque (nel 1929) e quando morì (nel 1999). Come
in un racconto di King. Corro allo stand F67 a trovare un caro amico e a
snasare tra i libri della casa editrice Oltre, che guarda appunto oltre, fuori dai
confini italiani e comunque oltre. Ma non solamente. Diego non c’è, così, piroettando tra libri
e libri, mi ritrovo in uno stand dell’editore Croce, che ha fatto della
letteratura femminile tra Otto e Novecento, la sua piscina. C’è Elisabeth
Gaskell e c’è Maria Messina. Bello, per me, tanto. E scopro poi che lui, l’editore,
è figlio di Remo Croce che conoscevo, ragazza, e che aveva una libreria, anzi “la
libreria Croce” su Corso Vittorio Emanuele. Ah, il tempo. Già, è ora, per me,
di tornare a casa e, dopo un’occhiata alla nuvola dentro, affronto le nuvole
nere fuori…
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io, in giro |
lunedì 4 dicembre 2017
Suor allegria e gli scarabocchi
Cammino svelta, nel
mattino appena uscito nuovo dall’ovo divino, per recarmi come faccio spesso, a
Santa Maria Maggiore, dove mi attende la quiete e la pace di parole d’anima
scambiate in dono con chi non voglio rivelare. Cammino svelta, dicevo, perché
all’ora tal dei tali mio marito mi attende in bocca a un negozio e non mi piace
punto farlo aspettare. Cammino svelta fino alla guardiola dove, in attesa
annoiata, siedono i poliziotti che fanno scorrere borse e borsoni in un tunnel
di sicurezza. Non ci sono che io, mi pare, ma mi sbaglio perché dietro di me si
materializza una suora in abito nero. Splende, sotto al velo, un viso di farina
morbido e brillano, dietro agli occhiali, due occhi pronti e vivi, in punta d'ago, che mi paiono
gli stessi che aveva Sister Francis al Mater Dei.
Saliamo, insieme, le
scale e poiché la vedo traballare le offro una mano e il braccio. In scambio di
sorrisi, dice: “Non si può neanche più andare a trovare Gesù in santa pace…”.
Eh già, bisogna passar la sicurezza come colpevoli e non devoti. In basilica
scopriamo che abbiam la stessa meta e quindi nell’attesa è uno scambio d’anime
e di gioia. E mi ha detto tante cose giuste e belle e ritagliate tutte quante
nell’appretto della verità che dubbi non ne conosce, che le vorrei scrivere ma non posso per promessa tra di noi. Una
cosa sì, però, la posso rivelare perché sa di cronaca e di allegria. Le
racconto della statua di Galileo, brutta come il peccato, a Santa Maria degli
angeli, e lei, serena: “Cosa vuoi, per accoglier l’altro, occorre accogliere
anche gli scarabocchi!”. Evviva e alleluia per Suor Allegria!
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Per me il cardinale Caffarra è un Pio Pellicano... |
giovedì 30 novembre 2017
Pranzi all'Appia nuova
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San Giovanni dell'anima mia |
Alto e un poco curvo
alla sommità, nel grigio di occhi e capelli, il nonno Carmine, l’unico che io
abbia mai conosciuto tra gli avi al maschile, era il padre di mio padre. Di
professione, avvocato come mio padre, aveva lavorato tutta la vita in un
ufficio comunale, chino sulle scartoffie della burocrazia che sono foglie
secche dell’albero della vita., nel vorticare dei tempi vecchi e nuovi che non
lo cambiavan punto.
Bambina, al giovedì per
il desinare, si andava – noi piccoli Ponti – a pranzare dai nonni all’Appia
nuova (con vista sulla Basilica di San Giovanni), nel grande appartamento che si divideva in stanze e stanzette e dove lo
zio medico riceveva i pazienti sempre in attesa. Gli gnocchi al sugo rosso li
preparava la Elena che era piccola tanto da poterla mettere in una bennibag e,
in cucina, mi pareva che volasse come Flora Fauna e Serena della Bella
Addormentata. I piedini in alto, svolazzante il grembiule, recava in mano un
piatto di meringhe tanto leggere da parere nuvolette di zucchero…
In salone, la
bellissima zia Cecilia, detta Cilia, faceva, fino all’ultimo, i suoi spettrali
solitari: l’orologio e la scaletta e a noi, timida presenza, chiedeva se
andavamo bene a scuola. “Sì!”, rispondevamo in coro e lei “Bene, bene” e finiva
tutto lì. Il nonno Carmine, dopo il pasto, tirava fuori dal taschino un
sacchetto verde di caramelle bianche e, facendo il verso della gallinella,
depositava gli ovetti nelle nostre mani raccolte a coppetta. La delizia di quel
gesto gentile! Via in bocca, nella bianca prelibatezza dello zucchero e poi, puah, di
corsa in cucina, tutti sputati gli ovetti nel nero dell’anima loro fatta di
amara liquirizia. E il nonno, ridendo: “Non vi piace la regolizia?”
lunedì 27 novembre 2017
Mimma dell'Immacolata
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Rose per Mimma... |
Per la Mimma insegnare
era imparare ed era verbo transitivo con il complemento di termine. “Ti imparo
a stirare”, mi diceva ed era come se mettesse me - proprio io, piccola io - al
centro dell’azione e lei, spettatrice, dall’alto mi guardasse mentre
apprendevo, diciamo così per osmosi da lei che nulla, però, insegnava. Imparavo, ho
imparato, cara Mimma, e ora che si avvicina il tuo (e il mio) compleanno, ti
ricordo (di nuovo tu, nel cuore come “impara” questo bel verbo di cui si è
perduta la radice…) nelle piccole tue abitudini che amavo.
Ricordo che per mio padre
avevi una passione grande. Quando lo chiamavi tu, l’avvocato, mi pareva che la
figura di mio padre diventasse ancora più grande e si faceva luminosa perfino.
E non mi metteva più paura, lui buio, neppure quando, a sera, tornava pieno di
ubbia, nero nuvola di pensieri. Gradiva, e si capisce, il minestrone che per
prima cosa, nel fresco della mattina di erbe e di fiori, gli avevi preparato e
che aspettava, profumato di pomodoro e di cipolla, in bell’ordine sul tavolo
della cucina.
Come preparavi tu i
panini fritti, poi, non ne ho trovati mai. Le rosette diventavano d’oro e la
mozzarella che si annidava, filante nel cuore loro segreto, sapeva di sublime.
Era di giovedì, mi sembra, che la casa si riempiva d’oli fritti e al venerdì
sera, tiravi la pizza, che entrava e usciva dal forno, croccante e allegra
nella sera.
Tutto l’allegro che
sento dentro nel rivederti viva, qui, accanto a me nel ricordo acceso, si fa
calante autunno nella visita mia, ancora bambina, al tuo capezzale, all’Ospedale
San Giovanni. Te ne sei andata via, in punta di piedi, come eri scesa qui nel
mondo. Domenica dell’Immacolata Concezione e anche un poco mia…
martedì 21 novembre 2017
Una verde foglia
Nel silenzio della casa
vuota, la pace mi avvolge come una nuvola d’oro e mi pare di mettere in fila i
pensieri arruffati come tanti soldatini senz’armi, lindi e pinti, i quali,
silenti anche loro, depongono fucili e sciabole ai miei piedi, mentre i miei cigni selvatici, con le loro coltri d’ortiche
sul dorso (da me intrecciate con dolore), toccano il suolo con i santi piedini. Io, novella Elisa, mi ritrovo
nuda, libera da ogni catena indossata ora sono molti anni, fin da quando ero in
culla nei rospi che vi si trovavano. E mi pare di avere tra le mani la foglia verde che era ed è l’unica mia
gioia…
Nel silenzio della casa
vuota, il miracolo si compie nella mia
profondissima quiete, nella solitudine e nel tu per tu con l’infinito che ci
abbraccia e ci ama. Taccio, ascolto, amo. E mentre, piano piano, la vita in me
si rianima con la voglia di passare dal pensiero ai fatti, eccomi a ricordare
un bel pranzo domenicale che ha riempito la casa del vocio di un bambino di quattro anni appena, con gli occhi celesti e grandi e pieni di poesia.
Correva, il piccolino, inseguendo una piccola macchina della polizia che in
slancio sereno correva lungo il corridoio per andarsi a schiantare, in curva, contro
il muro di fondo. E tante le risate del bambino. Conto per farlo correre al
ritiro. Conto in inglese, in italiano,
in spagnolo. E di nuovo, via, di nuovo
in corsa pazza di divertimento semplice, rotondo lui, via, a inseguire la
quattro ruote come fosse un gran tesoro e tutto in quello. Io, china, ginocchia
a terra, gioco con lui come facevo tanti e tanti anni fa con il mio, di bambino,
che ora studia lontano. Gioco e mi sento felice e penso che è nella semplicità
di questi attimi solenni, di luce e di gioia il sugo della vita, la risposta a
crucci e delusioni, il sangue che scorre nelle vene, la foglia verde che trema nelle nostre mani…
domenica 19 novembre 2017
Il cielo azzurro del lunedì
Un mio piccolo amico sardo |
A mio umile e modesto
avviso, e parlo sottovoce in questo mio piccolo spazio che conta le visite
sulla punta delle dita (e ne sono contenta!), riempire le chiese di persone,
anche se povere, che aspettano soltanto il dopo-messa per mangiare gnocchetti
sardi e tiramisù o per fare incetta di vestiti smessi da rivendere magari al
mercatino abusivo che si distende, sciatto e sporco, lungo la strada che porta
alla bellissima Chiesa di Santa Croce in Gerusalemme non vale ed è come fare lo
sgambetto a un Santo. Non è questo il sale del nostro credo. A Gesù non
importava un fico secco di quanti soldi avevi nel salvadanaio e Lazzaro con le
sue sorelle erano addirittura benestanti eppure lui pianse lacrime amare alla
morte dell’amico…
I beni di cui parla
nostro Signore sono tutti spirituali e quando sgrida il ragazzo ricco che non
ha la forza di seguirlo da tanto attaccato è alle ricchezze sue, non lo sgrida
per il denaro (“date a Cesare quello che è di Cesare”), ma perché è attaccato
al mondo, spiritualmente pure, e a quanto esso può dare. E’ l’attaccamento (e non i soldi), la
tentazione grande. Il pensare, erroneo, che tutto quello che abbiamo ci
appartenga mentre è solo dato in prestito come i talenti del padrone dati ai
servi affinché li facciano fruttare e poi restituiti. E la finisco qui perché
non sono certo io che dovrei spiegare questo al mondo. Piccola come sono e
umile nel mio umile quotidiano, me ne vado in cucina, alla maniera di
Cenerentola, e saluto per tutti il cielo blu che si spalanca di felicità in
questo primo giorno della settimana. Il cielo azzurro del lunedì!
giovedì 16 novembre 2017
L'angelo di Leonardo

E va bene, lo ammetto, non sono una storica dell’arte. Ho fatto appena, e tantissimi anni fa, un esame di arte moderna, alla Sapienza, con una professoressa che, lo ricordo ancora adesso con grande meraviglia (come allora che mi pareva uno sproposito…), si legava un nastrino rosa intorno al polso perché non distingueva la destra dalla sinistra. E ce lo disse anche. Senza un filino di vergogna…
Con lei, facevamo i
riconoscimenti che vuol dire prendere delle cartoline dei capolavori, nascosti
in chiese, pinacoteche e collezioni private di questo e di quel pittore e scoprire
chi lo aveva dipinto, bello così e pieno di vita. Ebbene, e dai e dai, dopo
aver girato, a Roma, per tutte le Chiese e i musei disponibili (ricordo che
avevo una vecchia bicicletta nera della Bianchi che poi mi fu rubata…) all’esame,
io sapevo distinguere Tiziano da Andrea del Sarto e Veronese e persino il
Bronzino. Non so. Non so dire il perché: le pennellate mi parlavano, i
chiaroscuri mi rivelavano gli arcani loro, i quadri erano allora (ma anche
oggi) quasi tutti firmati nell’anima mia e, sicura, senza indugi, mi presi un
bel trenta o forse trenta e lode. Non ricordo più e poi che cosa importa.
Io non so se il “Salvator
Mundi” (battuto all’asta per non so quanti milioni) è di Leonardo e forse,
certo, lo è. So però che il Gesù rappresentato è
senza aureola divina, ha una faccia che non mi
piace, una cera sfocata, gli occhi liquidi e senza sguardo e ha pure la
fossetta nel mento che, secondo la Mimma, voleva dire che il tal bambino non
piaceva agli angeli. Se osservate bene il quadro, poi appare chiaro ed evidente lo stacco nei capelli che in alto sono come lavati con i bicarbonato, sbiaditi e stenti, tristi, sfibrati e in basso deliziosi, ricciolini e d'oro e leonardeschi... Insomma, secondo me, il volto del Cristo è del Verrocchio che, alla fine stufo, l'ha affidato per le rifiniture di capelli e vestito a Leonardo che lavorava da lui a bottega. Che i due operassero insieme si sa e lo prova un grande quadro che è agli Uffizi. La scena tutta è del Verrocchio (ed è, diciamo così, sbiadita), splende invece sulla sinistra un angioletto che ha gli stessi capelli d'oro del Salvator Mundi e che è opera, tu guarda un po', di Leonardo...
sabato 11 novembre 2017
Geografia angelica
I miei barattoli riciclati e fioriti... |
Ero, ieri mattina, a
prendere un caffè con un caro amico che conosco oramai da diciotto anni per
avere avuto, lui e noi, il figliolo alla medesima materna che guardava – e guarda
ora pure – in faccia (quasi) il tripudio di marmi della Fontana di Trevi. Eravamo
al solito bar in via tal dei tali dove ci sediamo per aprire una parentesi
graffa sulla nostra vita e poi tante quadre e rotonde per esaurire tutti gli
argomenti, le novità, i piccoli snodi dell’esistenza. E con i figlioli oramai
all’università ce ne sono di cose da dire e da ricordare.
E via, ma in questo
mondo in cui batte sempre la grancassa del tempo a richiamare all’ordine suo c’è
poco tempo e così, in sarabanda, approdiamo a questa e a quella isola per poi arrivare
a un argomento che a entrambi e caro per motivi differenti: l’Arcangelo
Michele. E così ci siamo detti, lui e io, tutti gli indirizzi dove trovare a
Roma le cappelle dedicate al Generale dell’esercito del cielo. Ed ecco a voi servita
in un piatto d’argento la geografia angelica romana, per quanto ne sappiamo
lui e io. C’è l’arcangelo Michele in un
quadro bello, bellissimo e da poco ritrovato, nella Chiesa di Santa Maria del
Carmine alle tre cannelle a un tiro di sasso da Piazza Venezia. Guido Reni, il
gran pittore, l’ha dipinto per la chiesa di Santa Maria della Concezione in Via
Veneto; è invece di Giovanni Bigatti, il San Michele della bellissima Chiesa di
Sant’Eustachio. Il San Michele che scaccia Lucifero della Chiesa di San Marco
Evangelista in piazza Venezia è invece di Pierfrancesco Mola detto il ticinese,
un pittore che non conoscevo e che ha una grazia tutta sua. Ma a Roma, il San
Michele di tutti i San Michele è in alto, altissimo, sul culmine di Castel Sant’Angelo.
E’ lui, è proprio lui, il gran principe con le ali, raffigurato in atto di
rinfoderar la spada in inno di pace eterna che, da lassù, protegge e illumina
la Città Eterna in alleluya!
martedì 7 novembre 2017
Gocciole di vita
Vita d'erba viva |
Indossate le
mini-galosches che mio marito mi comperò, ora sono quasi venti anni, per girare
a Venezia, bagnata d’acqua alta, me ne vado, come rinata a una nuova primavera,
in giro per Roma che, sarà per lo spirito della pioggia che la avvolge in
tenera vita primigenia, mi pare respirare con me in un punto a capo, pieno d’armonia.
Alle nove e tanto sono a Santa Maria Maggiore e il cuore mio, già sollevato dalla grata doccia del cielo e dall santa catarsi, si
fa tanto leggero, nell’uscir di nuovo all’aria, che un filo di vento potrebbe
portarmelo via e rapirlo lassù e duro non poca fatica a tenerlo fermo lì dove
mi batte al mezzo del petto…
Subito dopo, in discesa
festante, con l’umidore delle gocciole nelle narici fresche, scendo per la Via
Martino ai Monti perché, in Via Petroselli, ovverosia all’anagrafe, devo
ritirare un certo certificato per una persona che amo. Siedo nel grigio
ufficio, dove vanno e vengono danzanti i numeretti delle chiamate in fila
indiana e mentre aspetto, sono tutta quanta immersa nella mia orazione
quotidiana, mentre dietro di me un signora col velo non fa altro che parlare a
voce alta e sincopata e troppo, troppo alta, e battere per terra con la punta
dell’ombrello. E via, mi sposto, proprio sotto al display dove in santa pace
provo a immaginare, leggendo le iniziali del codice fiscale, come si chiamano
gli utenti. MSS, ad esempio, sarà di certo Massimo, ma a volte, per i tanti stranieri che siedono tutt'attorno, mi viene difficile sciogliere il busillis..
Un gioco, il mio, in delizia d’attesa. Finita la commissione, prendo l’autobus
83 che vola dal Foro Boario verso la via del Corso. Entro, mi siedo, e mi trovo
occhi negli occhi con Giuliano Ferrara. Non un sorriso, solo uno sguardo. In
corsa arriva un simpatico romano che, riconosciutolo, gli vuole stringere la
mano. L'autobus impenna, cade, il meschino, quasi sopra al giornalista che, con l’arguzia sua
nota, commenta, a mezza bocca: “Si sieda, si sieda che a Roma ci sono le buche…”
sabato 4 novembre 2017
La forza del silenzio
Mentre leggo, con gioia
e riconoscenza, “La Forza del silenzio” del cardinale Robert Sarah (ogni
pagina, leggendo piano, nel silenzio mio pomeridiano), non smetto, da mattino a
sera, di lavorar tra pentole e tegami, in opera felice di Marta. E mentre faccio
saltare in padella una frittata o mescolo in energia l’impasto della torta di
cachi da mettere poi in forno e servire in zucchero a velo, l’antico mio
mestiere di giornalista e di scrittrice reclama una particina, anche da
comparsa, nella vita mia divisa oramai tra due mondi. E, come per caso (ma caso
non è) mi fa trovare, tra i tanti, tantissimi libri che popolano silenziosi la
mia casa romana, qualche volume dimenticato, comperato magari con la mano
sinistra, in un piovoso mattino di dicembre, e poi lasciato lì a covare le sue
meraviglie, sconosciute ai più. E anche a me.
Un giorno, dunque, dopo
aver steso i panni che danzano nel venticello romano, in asciugatura dorata,
giro il volto verso la libreria grande dello studiolo di mio marito e pesco,
tra tanti volumi, un libro vecchio e bicolore, bianco e color vinaccia, della
Sei (un libro per le medie dei tempi miei) e il titolo mi colpisce il cuore:
“La più bella novella del mondo”. Che indovino essere quella che è. L’autore è
Salvator Gotta, famoso per il piccolo alpino che noi tutti abbiamo letto, in
gioventù, quando i libri per bambini non insegnavano le cattive maniere e a
comportarsi male. E sia. Tra le pagine di Salvator Gotta, che era scrittore
considerato commerciale (e infatti ha fatto diventar ricchi molti editori)
ritrovo la prosa che amo, il lessico antico, il periodare lento, nelle immagini
vivide e fresche. Che meraviglia. E poi, nel leggere un piccolo racconto in
delizia “Il gioco dei colori” mi accorgo che Gotta fa parlare i rumori, ma è il
silenzio, il silenzio antico dei paesi italiani, del suo Canavese, delle piazze
assolate silenziose, abitate solo dal din don dan della campane, che parla
soprattutto. Quello stesso silenzio che abbiamo perduto e di cui parla il
cardinale Sarah. Un silenzio divino, sovrumano (come lo chiamava Leopardi) dove
si sente il respiro di Dio.
martedì 31 ottobre 2017
La musica del cuore
le bambole di Angelica |
In fondo al corridoio
che porta alle camere da letto, al piano secondo della Villa Bianca dove sono
nata e cresciuta, c’è un posticino, affacciato sul verde, baciato dall’oro del
tramonto che mia madre ha scelto quale angolo suo di scrivania. Nel tavolino
vecchio, venuto anche lui da San Giuliano, c’è raccolta in cassettini la vita
sua che le appartiene tutta, in segreto di noi figli; la sedia, o meglio la
poltroncina, anche lei friulana, è imbottita sul sedile e sullo schienale con
una stoffa damascata in rosa pallido. E lì che siede lei, mia madre, ancora
adesso che conta molte primavere, a scrivere lettere e le sue poesie (che mi
recita quando la vado a trovare). E sulla parete che la guarda diritto in
faccia c’è un ritratto misterioso in dagherrotipo ottocentesco. Vi sorride, in
splendore di giovinezza e d’ordine, una fanciulla in fiore, vestita di
crinoline, con i bei boccoli biondi sciolti sulle spalle diritte, della quale
solo da poco ho saputo nel dettaglio la vita.
Insomma quella bella
delle belle era una delle sorelle di mia nonna, di nome Angelica, la quale a
diciott’anni se ne volò in cielo colpita dalla malattia di quel secolo lì che
era la tubercolosi. Il padre di lei, e quindi il mio bisnonno, perduta la
figliola, fece un pacco solo delle terre e dei poderi che aveva a Tiezzo e non
volle più abitare la casa dove respirava il ricordo dell’Angelica. E siccome
poi la figliola suonava il pianoforte come un angelo, proibì alle altre
figliole, e quindi anche a mia nonna, di fare musica, pestando sui tasti bianchi
e neri del pianoforte. Il silenzio abitò la nuova casa. E ancora mi domando
come fece uno dei fratelli di mia nonna, visto il divieto, a suonare così bene
il piano, senza aver studiato punto e niente. Veniva in camera mia, Francesco
già in luna calante, e si accomodava al piano mio mozzo e dalle sue dita in
ginnastica le note del cielo. Nel silenzio della musica del cuore…
domenica 29 ottobre 2017
Perduta nell'Eternità
Con i frutti della terra--- |
In questo mondo moderno
a gambe all’aria, in cui si celebra una profana messa domenicale all’Esselunga,
in cui chi dovrebbe guidare, privo com’è di fortezza, segue e compiace la
gente, disperdendola per strade di pericoli e sassi appuntiti, invece di
fornirle il buon consiglio e il viatico per il lungo andare; insomma in questo mondo bislacco, vestito d'arlecchino, in cui per essere
ministri non serve la laurea mentre per diventare bidelli quasi sì, io mi trovo
come un ciottolo di fiume carsico perduto nella rena bianca di una spiaggia
tropicale. Nel perdono, amo i fratelli che pure non capisco o che capisco fin
troppo bene per conoscere gli ingredienti delle reazioni loro che li fanno
uomini e persone. Nella gioia, mi immergo nella vera vita mia che non si vede e
che è, per me, più vera anche di quella che si vede. E in quel tutt’uno mi
perdo e mi confondo fino a non ritrovare più i contorni della mia persona,
perduta come sono nell’Eternità.
Eppure i due mondi, uno
rumoroso l’altro silente, allacciati, quasi camminano insieme e in questo trovo
quello e in quello questo. Qualche giorno fa, ad esempio, sono andata a casa di
un’amica che mi ha regalato una montagna di belle cose che lei non usa più e
tante grazie e chiacchiere generose e poi, all’ultimo, mi ha prestato un libro
che ancora doveva leggere e che ho accettato con un bel sorriso. Il titolo è “La
Forza del Silenzio”, l’autore è un Cardinale africano, Robert Sarah, che è prefetto
della Congregazione per il culto divino. La prefazione al libro l’ha scritta il
Papa Emerito, Benedetto XVI, e già da subito, eccomi nel fiume della vita vera,
accompagnata per mano da un uomo di Dio, che conosce tutti i sentieri più
nascosti (che sono semplici però!) della spiritualità. Lo leggo piano piano,
nel silenzio mio d’oro, quando stanca del mondo, tiro le reti in barca, con
tanti bei pescetti d’argento che sono dono di felicità. Lo leggo, con la gioia
nel cuore, perché le parole, una via l’altra, si inseguono ridenti conducendo
me (e ogni lettore) al centro della verità. Lo leggo e cresce in me la speranza
che è virtù teologale, nel giorno che verrà, quando, girato il vento, i
piedi nudi torneranno a toccar terra e i
cuori in alto, in ricamo di cielo…
martedì 24 ottobre 2017
Maria Antonietta alla Sapienza
Anatre a Bayreuth... |
Arrivata, fresca di
Istituto Mater Dei, all’università la Sapienza di Roma, mi trovai in un mondo
nuovo, che non conoscevo punto. A quei tempi eravamo noi studenti a scrivere il
nostro personale piano di studio. Alcuni esami, certo, erano obbligatori: due
annualità di letteratura italiana (io le passai con un tale professor Fasano
che era grande e grosso e pareva Bobo di Staino), una di latino e non so più che cos’altro. Non
mi spaventò punto quella libertà che al Mater Dei non avevo conosciuta mai. Al
contrario, in un baleno, scrissi gli esami extra che volevo dare. Glottologia,
ad esempio, con il professor Cardona del quale mi ero invaghita un pomeriggio a
casa della professoressa Stegagno Picchio con la quale mi sono laureata. Di
quel pomeriggio, passato a sistemare i libri, alta sulla scala che lei, la
Stegagno, teneva ferma per me, ricordo soltanto la barba e le mani del
professore che ci guardava, commentando i libri che noialtre riponevamo in
questo o quello scaffale. L’esame, che pure mi ero riproposta di dare, non lo
diedi mai e mai frequentai le sue lezioni, travolta da altri sentieri della
vita (fu in quei giorni, infatti, che conobbi Nanni, ma questa è un’altra
storia…).
La libertà del
vagabondaggio da un esame all’altro, la ricordo bene ma il mio pellegrinaggio
nel mondo, nell’ordine che è stato sempre ingrediente primo mio, come acqua,
lievito e farina per il pane, rispuntò bello forte e vivo e rotondo un giorno
che l’università era occupata e che un picchetto di studenti di sinistra (allora
esisteva ancora il Pci) impedivano a noialtri l’ingresso in facoltà. Senza
paura, affrontai un barbuto (che non era niente affatto bello come il professor
Cardona…) in eskimo verde militare. “Non si entra”, mi disse lui. E io: “Tu
forse, ma io sì”. E semplicemente entrai. Lui, sbigottito, mi seguì con lo
sguardo, mentre lentamente salivo le scale di Lettere e Filosofia come salendo
sul patibolo: Maria Antonietta alla Sapienza
sabato 21 ottobre 2017
La bellezza della semplicità
la bellezza della semplicità |
Oh quanto ho penato,
durante i miei anni universitari, per passare
l’esame di storia moderna! Ricordo - e lo ricordo abbracciando nell’anima
Annalisa che se n’è già volata in cielo – che andavo da lei, da Annalisa, a
studiare e che lei, in quattro e quattr’otto, memorizzava date, luoghi,
trattati, generali, monarchi primi e secondi e terzi e anche quinti e che io
rimanevo indietro, col fiato mozzo. Lei, mettiamo, già a pagina 50 e io, alla 10,
arrancando in affanno. Decidemmo, di comune accordo, di finirla lì e, con
grazia, ognuno per la sua strada. Lei verso il suo – immagino – trionfale 30 e lode;
io, al mio misero 26 (che presi per due volte di seguito, avendomi il
professore, bontà sua, consigliato la prima volta di tornare al prossimo
appello). Di tutto quello studio, ricordo che studiai a fondo anche il Concilio
di Trento con il quale la Chiesa, la mia Santa Romana Chiesa, si difendeva
dalla Riforma di Martin Lutero che già a guardarlo mi pareva, grande e grosso
com’era, un gran mangione piuttosto che un teologo…
Avevo allora, mi pare,
una ventina d’anni. E Lutero era il gran nemico, colui che aveva diviso la
Chiesa, la quale, grazie ai suoi Santi tanti (Santa Teresa e Pippo Neri e San
Camillo De Lellis) riuscì a rialzarsi, radicata nell’umiltà e nella legge
eterna e immutabile del Signore. E ora, a cinquant’anni suonati, mi tocca
sentire che Lutero è stato un “dono dello Spirito Santo”, che bisogna andare
fino in capo al mondo per celebrarlo, e mi pare di vedere lassù al Colle
Vaticano, come una voglia di protestantesimo, una deriva strana che vuole
cambiare l’eterna legge e chissà dove
precipitarci. E pensare che proprio un santo gesuita (proprio il fondatore dell’ordine
del Pontefice regnante), Sant’Ignazio di Loyola, aveva creato la sua compagnia
di soldati di Gesù per combattere la riforma luterana, gli eretici come si
chiamavano allora e secondo me anche oggi… E le tante, bellissime chiese
barocche romane (compresa la Chiesa del Gesù che è ecclesia ecclesiarum dei gesuiti) furono una risposta viva, in marmi fioriti e gran
dipinti di inarrivabile bellezza, al pauperismo di lassù. E perfortuna!
mercoledì 18 ottobre 2017
Il fucile di Giamburrasca
...in lana rosa |
Non so se anche voi,
come me, andate ogni tanto al “Mercatino” (uno dei tanti, perché è una catena che
corre lungo l'intera Penisola) dove l’Italia tutta è in vendita, dove si
possono trovare a poco prezzo persino i pupazzetti plasticati dei formaggini
Mio, dove le foto sacre degli avi diventano uno smercio, a mazzetti, in bustine
di plastica date via per tre euro o poco più. E’ un Italia in svendita, davvero,
nell’economia che succhia via l’anima alle cose, traducendole in monete e
banconote.
E anche se, lo ammetto,
qualche volta ho trovato lì qualche pillola dolce della mia infanzia che mi ha
riacceso il lume dei ricordi (una bambola Ratti che avevo amato tanto, da
bambina, e che non avevo avuto mai…) e il terzo occhio, devo ammettere che,
vagare tra tutta quella storia di anime, conservata nella naftalina preziosa
dell’amore e rovesciata lì, a casaccio, mi mette un gran magone nel rammentarmi,
tanto per dirne una, che quando mio padre (da me molto amato) se ne volò in
cielo, di lui restò ben poco quanto a oggetti: un orologio d’oro, qualche
fotografia, le boccette della sua collezioni di sabbia dei deserti…
Ebbene oggi ero lì e
mentre, in coda aspettavo il turno mio, per vendere un certo paio di scarpe da
ginnastica mai messe che dormivano nell’armadio in corridoio, ecco arrivare,
tutto sorridente, un piccolo uomo un poco sghembo, vestito con una tuta alla
Forza Lazio. Con sé ha molte scatole grandi e grosse e, nell’aprirle, mostra a
noi e a tutti, il suo tesoro: tre gran fiuciloni in plastica con tanto di proiettili
in una sorta di biberon. Li monta, tutto compiaciuto, e poi spara in una busta
blu per far vedere come funzionano a puntino i suoi giocattoli. E tutt’intorno
noi a guardarlo in facile ironia, pensando che mai nessuno comprerà quella roba. Sì, sì, certo. Invece, dalla folla assiepata spunta un tipo con una barba mansueta e
tira fuori i soldi necessari all’acquisto che neanche si posa tra l'altra mercanzia. E poi il barbuto, cacciatore metropolitano, se ne va, felice, uomo moderno col
bel fucile in plastica, che un tempo (e ora no, nel trionfo del politicamente corretto che nega ai bimbi il gioco delle armi) avrebbe fatto felice Giamburrasca…
domenica 15 ottobre 2017
Due km dal Circo Massimo
Proprio in questi
giorni, per anni e anni, il Rione Monti, profumato di tradizione romanesca,
festeggiava in piazza una bella e ricca “Ottobrata Romana”, perché, si sa, a
Roma ottobre è un mese di sole d’oro e di ponentino alpestre e starsene all’aperto,
eh sì, era (ed è) una grazia e una gioia. Ci si ritrovava con i vecchi e i
nuovi abitanti così diversi tra loro ma che, nelle radici vecchie e nuove, si
davano la mano, nella piazzetta della Madonna dei Monti, sotto alla bella
fontana dei Catecumeni ricca d’acqua e di vita (che oggi piange incrostata di
licheni), a mangiare pane e porchetta, con un bicchiere di vino in mano. In
allegria ritrovata. Le botteghe erano aperte e ognuno offriva quello che voleva per stare tutti assieme in aria di stornello.
Ma da qualche anno a
questa parte, cioè dai tempi di Ignazio Marino (che tanto diversi da quelli di
Virginia Raggi non sono), a causa della burocrazia che divora l’anima nostra,
la festa romana tanto cara a chi abita il Rione, non si fa più. Troppi legacci,
troppe scartoffie, troppi burrò. Gli organizzatori, sopraffatti, hanno lasciato
correre e hanno chiuso baracca e burattini. Così, dal 2016, non si vive più la
festa, non ci sono più gli spettacoli in piazza e noialtri monticiani,
desolati, se vogliamo festeggiare il nostro Rione – e la nostra Roma - dobbiamo
andare sull’Appia antica dove, come facevamo noi, si canta, si ride, si mangia
e si balla. Ci sarà tanto da fare e da vedere a "2 chilometri dal Circo Massimo e 1 chilometro da San Giovanni". Certo, accipicchia, bellissimo. E gli organizzatori sono quelli dell'Associazione culturale Rione Monti. Tu guarda! Ma non si poteva fare qui, nel cuore di Roma la festa romana, riaccender l'ottobrata lì dove è nata si è fatta ragazza? Mi dico e giro la domanda alla signora sindaca...
In attesa di risposta, bisogna prendere la macchina e andare in un posto che porta
un nome forestiero e cioè “Roma village”, un nome che di Roma non ha che il
gusto insipido dell’americanità. Ma il cuore mio ha un sobbalzo quando, nello scorrere la locandina, leggo che il parcheggio consigliato è quello del ristorante "Ar Montarozzo"... Un sospiro di sollievo in ave Cesare, tra gli stornelli, buona ottobrata a tutti!
lunedì 9 ottobre 2017
Galileo a Santa Maria degli Angeli
Ieri pomeriggio per
ragioni allegre che non sto qui a raccontare perché sono del mio cuore mi
trovavo, sola soletta, in Piazza della Repubblica in attesa e davanti alla meravigliosa
basilica di Santa Maria degli Angeli, progettata da Michelangelo, sulle terme
di Diocleziano; no, non ho resistito e sono entrata a farmi un giro di grazia
in tanto splendore. Dopo la preghiera che accompagna i miei giorni chiari,
nella pace del cuore, eccomi a gironzolare in lungo e in largo nella pancia
della grande chiesa di Maria e degli Arcangeli. Mi sorprendono, per la
dimensione, le grandi pale che se ne stanno appese alle pareti e mi è
difficile, a naso in su, riconoscere e capire le scene sacre. La testa si
rovescia all’indietro, gli occhi si appannano
Così, eccomi, in
sacrestia dove è allestita una mostra, tutta piantine e planimetrie della
basilica. Da lì a uscire è un passo e il cielo mi schiaccia un occhiolino, due
passi e oh che cosa è mai questa statua? Chi è questo colosso? Mi giro, di qua
e di là, e sulla parete noto un lenzuolo, diciamo così, di spiegazione. Si
tratta di una statua bronzea di Galileo Galilei, progettata da un cinese, Tsung Dao Lee, che è stato anche premio Nobel per la Fisica. Certo,
Galileo, oltreché scienziato, era e rimase un uomo di fede, ma, mi chiedo, in
profusione di rispetto e di umiltà, era proprio necessario questo “dono”? E non
occorre certo che aggiunga altro perché, nel proseguire il mio divin giro, mi
trovo, a scorno, proprio lì dove si distende la bella Meridiana (che si accende
di luce nel giorno del solstizio d’inverno) di fronte a una macchinaccia, a
pendolo, di cui, in sancta sanctorum, si racconta del funzionamento sulle
pareti della Chiesa. Peccato che proprio al lato di tale manufatto (con gran
rispetto del Galilei che non lo avrebbe mai messo, dico io, in una Chiesa…) c’è
una tela grande e grossa che attrae il mio sguardo per veder piovere dal cielo
un uomo avvinghiato a un demonio nero. Per sapere chi lo ha dipinto (Pompeo
Batoni) e che cosa rappresenta (la caduta di Simon Mago che voleva vendere lo
Spirito Santo…) mi tocca star qui, adesso, a pesticchiare sul tastiera in gioia
di visione e d’angeli e, via, con una riverenza, a tutti auguro una felice giornata.
sabato 7 ottobre 2017
Amiche mie
Amiche ne ho avute
molte, nel mio pellegrinaggio quaggiù. Alcune, ancora adesso mi sono care e
care le loro figlie, altre non le vedo più e, solo per incidente so che sono vive,
che si sono separate, che vivono qui e lì, in giro per il vasto mondo. O forse
solo a Roma, magari vicino a casa mia, in Piazza Navona, in una via che amo per
il nome sacro che porta, ma non le ho mai incontrate e siccome io i social non
li uso (per non saperli usare) non ne incontro mai, di amiche, dico, in questo
mondo che non è il mio primo né il secondo mondo e che mondo non è.
Di alcune immagino la
vita perché è rimasta sempre quella, nel su e giù loro consueto e settimanale,
nel quale ho vissuto, a tratti, e a tratti no. Così è come se le vedessi, con i
libri loro sottobraccio, dalle parti di Piazza della Pilotta o al Vaticano Di
altre mi sfugge tutto, e nell’inconsistenza loro, le immagino ancora come erano
allora, quando, insieme, gomito a gomito, lavoravamo, per dire alla Rai o al
Gazzettino. Ne ho anche di nuove, di amiche, e uso con loro le forme di
comunicazione che sono moderne e svelte in agile pestar di tasti. Altre,
antiche, le rivedo per caso, magari proprio a Cala Girgolu, sulla spiaggia, e
allora è come se il tempo, sospeso, facesse una giravolta all’indietro e sono
di nuovo bambina e lei pure.
Siamo, lei e io, tali e
quali ad allora, anzi siamo proprio noi bambine. Sono in casa, nella
mattina fresca con il vento ancora indeciso se soffiar costì o colì; sono in
veranda, e dalla selva di mirti e corbezzoli che esplode a mano manca ecco che arriva
lei, l’amica mia del cuore, vestita, anche se è estate e fa un gran caldo, come
d’autunno. A mia madre dà del tu (oh meraviglia!) ed elenca le mirabolanti
avventure in cui mi vuole con sé quel
giorno: al mercatino di Olbia, poi a saltar le onde a Lu Impostu, a cercar funghi all'ombra del Monte Nieddu. Io, sì, sì io, proprio io! Lo sguardo mio implorante, gli occhi di mia madre
severi: “No, Ester va giù sulla spiaggia!”. Così si concluse la mia avventura, pellegrina, mai vagabonda e ora
che ci penso fu meglio, molto meglio così…
martedì 3 ottobre 2017
Prima comunione al Mater Dei
La domenica delle Prime
comunioni, in boccio di primavera, era festa grande all’Istituto Mater Dei;
noialtre, come piccole spose, vestite di organza e tulle, con una cuffietta, ornata di fioretti bianchi tutt'attorno all'ovale del viso e che finiva, scendendo sulle spalle, in forma di
dolce velo, inghiottendo i capelli nostri biondi, noialtre (dicevo) svolazzavamo nel cortile, per l'occasione vuoto di
motorini. Aspettavamo che la Cappella del Buon Pastore, nella
sua affettuosa oscurità, si riempisse di mamme e papà, cugini e nonni, tutti
trepidanti, stirati nell’eleganza di quei tempi lì, per il grande momento in
cui, nel dono grande della fede, avremmo anche noi bambine partecipato alla
mensa eucaristica. Noi, inconsapevoli, festanti, in tripudio, giocavamo tra di
noi, inseguendo i nostri personali sogni di ragazzine, tremanti per qualcosa che non capivamo punto, ma che ci faceva sorridere d'importanza tra tutti quei grandi accesi di aspettativa. Niente, pensavo allora (lo ricordo!), sarebbe
mai cambiato nella quotidianità rotonda di quegli antichi riti all'Istituto Mater Dei…
Io, di quel mio primo
giorno in nuova, immacolata meraviglia, ricordo solo la gioia grande di
indossare il vestito bianco (che ereditavo da mia sorella) e le scarpette
candide con il loro bel bottoncino sul fianco, che tanto mi piacevano. E poi la
cioccolata calda con i cornetti alla crema che mangiammo in una delle tante
sale vuote del Palazzo color ocra alto su San Sebastianello.
In cortile, più tardi, con il sole già alto e i borborigmi della fame in pancia, si celebrò il rituale della foto ricordo. Fummo sistemate, in ordine di altezza o secondo criteri che non conoscevo, su pedane degradanti, in due file. In mezzo a noi, vestito di nero, con una gran sciarpa viola intorno alla vita e l’unico maschio seduto all’indiana ai piedi, c'era il Vescovo che era bonario e rotondo come un bel panino fresco. Al momento di scattare l’immagine, una soltanto di noi, si girò di profilo, una soltanto e vi invito a indovinare chi fu. Quella foto è stata pubblicata nel “Centenary Souvenir” del Mater Dei (1886-1986) e il mio naso, che piccolo non è, sembra fare un bucolino nella carta e salutare gli angeli…
In cortile, più tardi, con il sole già alto e i borborigmi della fame in pancia, si celebrò il rituale della foto ricordo. Fummo sistemate, in ordine di altezza o secondo criteri che non conoscevo, su pedane degradanti, in due file. In mezzo a noi, vestito di nero, con una gran sciarpa viola intorno alla vita e l’unico maschio seduto all’indiana ai piedi, c'era il Vescovo che era bonario e rotondo come un bel panino fresco. Al momento di scattare l’immagine, una soltanto di noi, si girò di profilo, una soltanto e vi invito a indovinare chi fu. Quella foto è stata pubblicata nel “Centenary Souvenir” del Mater Dei (1886-1986) e il mio naso, che piccolo non è, sembra fare un bucolino nella carta e salutare gli angeli…
lunedì 25 settembre 2017
Profumo di Sardegna
La sera poi, per grazia di Manuel, che porta un
nome a me molto e assai caro, ci ritroviamo, sotto i pini di Sant’Anna in una
spiaggia bianca di Budoni, alla santa messa per ricordare la nascita in cielo
(come dice, giustamente, don Chessa dall’altare) di San Pio di Petralcina.
Belle, quanto sono belle le donne sarde con i capelli d’argento, nelle loro
gonne nere a piegoline, avvolte negli scialli ricamati! Più in là, sul campo,
cuoce allo spiedo un vitello intero e l’odore si spande nella sera che scende a
coprire con la sua misericordia le tante pene degli umani. Poi, tutti a
mangiare la carne immolata e il formaggio pecorino. Prima, però, in danza,
passano le donne con gran cesti pieni di dolciumi: peschette rosse d’achermes,
oregliette coperte di miele, meringhe bianche con su una nevicata di palline
d’argento. E mai ho mangiato dolci così buoni, fatti, secondo me, nelle cucine
del paradiso per i santi del cielo…
Sorrido alla mia Sardegna che mi regala, prima
del sonno e della quiete, nel buio e nell’incanto, anche i passi di danza del suo passato antico, al
ritmo sardo di una fisarmonica…
venerdì 15 settembre 2017
La gioia della verità
Non sono e non vorrei
essere, come Cacciaguida nella Divina Commedia, una “luadatrice temporis acti",
eppure, a volte, quando come oggi mi sveglio all’alba e ripenso al bel passato
di bellezza che circondava la vita mia, quando, mettiamo, dovevo andare a far
da cronista alla presentazione di un bel volume della Marsilio che raccontava,
diciamo così, vita, morte e miracoli dei collezionisti veneziani del
Cinquecento, gente piena di buon gusto che in casa teneva, sì sì, senza
scherzi, “La Tempesta” di Giorgione, ebbene mi vien su una sorta di magone per
il cattivo gusto e la bruttezza che abitua l’occhio e il cuore al caos e all’insensatezza.
E tutt’intorno sento i lamenti di amici e conoscenti che cercano, nella pace
del mio cuore, un angolo di sereno e di rotondità. Vengono e vanno, in corsa,
senza capire che senza poi l’esercizio ed il discernimento a poco servono le
mie povere parole…
Intanto, nel segreto
mio che palpita, taglio e cucio, in ora et labora, le mie bennibags che se ne
vanno per il mondo, parlando di come eravamo, nell’armonia celeste oramai
messa, da molti, in naftalina. E tutto mi pare come abbassato di tre spanne.
Non ci sono più in giro i Pavarotti. O forse ci sono ma ci sono nascosti,
velati dal torrente di parole quotidiane che, in giri convulsi e ruote di
potere, annacquano la verità, rendendola scialba, come un’amarena fatta con un
goccio di sciroppo e un litro d’acqua vecchia.
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